Una brezza gelida fa ondeggiare la chioma degli alberi attorno a noi. Dario appoggia lo scrigno di legno sul masso, sopra una chiazza di muschio. Il lucchetto arrugginito ondeggia e gratta contro la placca metallica. Su tutti i lati sono incisi dei segni sbiaditi, accanto al lucchetto qualcuno ha fatto dei piccoli fori. Tutte le incisioni non vanno più a fondo di qualche millimetro. Sembra che chiunque ne sia entrato in possesso finora abbia cercato di aprirlo, in un modo o nell’altro.
Dario prende la chiave che tiene appesa al collo, i suoi occhi grigi mi guardano sorridenti.
«Sei pronto, Marco?»
Mi stringo nel giubbotto, ci saranno dieci gradi al massimo.
«Stai solo aprendo un beauty case di qualche millennio fa. Sbrigati, che qui fuori si gela.»
Sbuffa, l’aria gli si condensa davanti alla bocca.
«Quando lo apriremo finalmente ci crederai.»
«Anche se quello fosse davvero il vaso di Pandora ormai è vuoto. Le malattie sono già uscite tutte, cos’altro vuoi tirare fuori?»
Afferra il lucchetto con una mano e punta la chiave sulla serratura. Non entra.
«È più arrugginita di quanto pensassi. Aspetta…»
La chiave fa uno scatto e si conficca nel lucchetto. Dario sorride e mi lancia un’occhiata vittoriosa.
Mi ficco le mani sotto le ascelle,
«Dai, muoviti, che possiamo giocare ai piccoli greci anche a casa.»
Fa scattare la chiave, il lucchetto si apre. Armeggia per far scorrere la barra metallica arrugginita attraverso i fori dello scrigno, la ruggine gratta con un suono acuto e fastidioso. Mi tappo le orecchie.
«Ecco quale altra disgrazia poteva capitare al mondo, unghie sulla lavagna. Grazie Dario eh.»
Apre lo scrigno. È vuoto. Il legno all’interno è graffiato, sembrano segni di artigli. Ci tenevano degli animali qui dentro? Che schifo. Mi rificco le mani sotto le ascelle. Il freddo si fa più pungente.
«Visto? È vuoto. Ora possiamo tornare a casa?»
Dario si rialza in piedi, si allontana di qualche passo dallo scrigno e si piazza accanto a me.
«Aspetta. La conosci la leggenda no?»
«Certo, Pandora lo apre e ne escono fuori tutte le malattie del mondo, fine.»
Dario sospira e scuote la testa. Ecco che arriva la nuova lezione di storia, dannazione a me quando gli ho prestato quei dvd di Ulisse.
«Secondo la leggenda Pandora richiuse lo scrigno prima che la Speranza potesse uscirne. Lo riaprì in un secondo momento, ridando una vita all’umanità.»
«Bello, e quindi?»
Una nuvola passa sopra al sole, la luce si fa soffusa e fredda.
«La Speranza era stata troppo lenta per uscire subito insieme al resto, per questo Pandora dovette riaprire lo scrigno. E se ci fosse stato qualcosa di ancora meglio lì dentro? Qualcosa che richiedesse un lunghissimo tempo per uscire?»
«Non pensi che Pandora se ne sarebbe accorta? Insomma, perché sigillare di nuovo lo scrigno? Poteva tenerlo aperto e fine.»
Gli occhi di Dario passano da me allo scrigno. Ha smesso di sorridere. Magari se rincaro la dose ce ne andiamo.
«E poi ti sembra che la Speranza sia una bella cosa?»
«Certo che sì, non lo conosci il detto “La Speranza è l’ultima a morire”?»
«Conosco il seguito: “ma è la prima a farti fregare”. E se la Speranza fosse un altro male? Cioè, andiamo, cosa ci guadagniamo a non pensare in modo razionale? La Speranza serve solo a fregarci. Magari lì sotto c’è solo un altro mostro più cattivo col culo ancora più pesante.»
La luce si fa più fioca. Le ombre proiettate dagli alberi circondano la radura.
Dario scrolla le spalle. «Sei il solito disfattista. Solo tu potevi vedere la Speranza come—»
Qualcosa gratta all’interno dello scrigno, un rumore basso e prolungato. L’aria è ferma, gelida. Attorno alle nostre caviglie scorre un filo di nebbia. Dario fissa lo scrigno. La bocca è dischiusa, il volto è cadaverico. Il fiato gli si condensa davanti alla bocca, sempre più visibile a ogni respiro. Mi afferra per la manica del giubbotto. Sta boccheggiando. In mano stringe ancora il lucchetto. Gli afferro il polso, gli sollevo il braccio e gli strappo il lucchetto di mano. Mi lancio sul forziere, l’aria attorno a esso è gelida e secca. All’interno del forziere non ci sono più le pareti di legno, solo oscurità. Il rumore dell’artiglio che gratta si fa più intenso. Afferro il coperchio del forziere e faccio forza per chiuderlo. Il legno è congelato, la resistenza è durissima. Lo prendo con entrambe le mani e spingo l’altro lato del forziere col ginocchio. Dall’interno un urlo acuto mi causa una fitta alle orecchie. Qualcosa di caldo mi cola dai lobi.
Spingo più forte, guadagno qualche centimetro. Nell’oscurità del forziere si apre un occhio rosso, la pupilla mi fissa. Mi vedo riflesso in quell’occhio. Sono su un letto bianco, tutta la stanza è bianca. Sono vecchio. Sulla testa mi sono rimasti pochi capelli disordinati e addosso ho solo un camice. Attaccato al braccio ho un tubo collegato a un macchinario accanto al letto.
Sono solo, so che Dario non c’è più da tempo.
Chiudo gli occhi.
Schiaccio il coperchio del forziere, aggancio il lucchetto e lo chiudo con uno scatto.
Il calore del sole mi accarezza le guance, la luce si diffonde tra gli alberi. Mi tremano le gambe. Mi siedo a terra, schianto la schiena al masso e tiro il fiato.
Dario è in piedi davanti a me, il volto è privo di colore, le labbra sono cianotiche. Il suo sguardo è rimasto fisso nel vuoto. Vorrei chiedergli cosa ha visto, quale sarà la sua fine, perché non sarà con me negli ultimi istanti. Si porta una mano alla pancia.
«Avevi ragione, Marco. C’è qualcosa di peggio della Speranza.»
Ansimo. Appoggio la testa contro il masso.
«Cosa?»
I suoi occhi grigi si spostano su di me. Una lacrima gli scorre lungo la guancia.
«Sapere di non averne.»
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