A Classic Horror Story

A Classic Horror Story - Alle origini - La Settima Arte

Prima di vedere questo film ho letto vari pareri, e la cosa che mi incuriosiva era quanto fossero discordanti. Fondamentalmente i commenti si dividevano in due: chi lo accusava di essere la rimasticatura di film più vecchi e famosi, praticamente un copia incolla di vari cliché, e chi invece lo definiva come una geniale reintrerpretazione del concetto stesso di horror movie.

Meravigliosamente, questo film è entrambe le cose.

Il motivo per cui ho deciso di parlarne è che il film compone uno splendido esempio di sceneggiatura, elemento trasversale nelle opere di narrativa (libri, fumetti, film, opere teatrali), e di come un singolo errore di progettazione può farti passare da un probabile 50% di gradimento a uno scarso 35%

Dato che parlare di questo aspetto richiede di fare spoiler del finale (o quantomeno del maggior colpo di scena), parlerò prima del film in generale e analizzerò il finale nell’ultimo paragrafo, in modo che chi vuole ancora vederlo potrà interrompere la lettura.

Ma iniziamo dal principio.

La trama

Dopo una breve introduzione che fa presagire molto sangue e splatter, il film si premura di farci sapere subito che siamo in Italia. Si apre con una ragazza al telefono con la madre, intenta a decidere se tenere o no il bambino che ha in grembo. La madre, che da qui in poi chiameremo Madre Dell’Anno, per comodità abbreviato a MarDA, le fa notare che di maschi con cui procreare ce n’è una marea, mentre un lavoro fisso in Italia quando le ricapita? Dopotutto lei è in prova e una gravidanza non è il top per mantere il posto, un bambino lo potrà avere più avanti.

La figlia non sembra molto convinta.

La MarDA le dice che dopo l’aborto le rifà l’armadio e chiude la chiamata.

La figlia continua a non sembrare molto convinta.

La ragazza raggiunge il classico gruppo di amici che sta per partire per un viaggio in camper dal quale se hanno fortuna tornerà indietro la telecamera con cui stanno facendo le riprese. Gli sceneggiatori non dovevano essere troppo convinti che dalla scena prima si capisse l’italianità dell’opera, quindi decidono di prendere un personaggio a caso e fargli cantare “Ma il cielo è sempre più blu”.

Dopo una breve conoscenza di quelli che già da una prima occhiata e senza sapere niente della trama possiamo chiamare “le future vittime”, si parte. E dato che gli sceneggiatori non erano sicuri che il titolo e la prima scena del film facessero capire agli spettatori che si trattava di un horror, durante i primi 30 secondi del film vengono inseriti cartelloni inquietanti, notizie di persone scomparse e un inglese che paragona la mafia alla pasta e le lasagne al mestruo femminile.

Dato che il viaggio è noioso l’inglese decide di guidare ubriaco. Cosa potrebbe mai andare storto mettendo al volante uno abituato a guidare a sinistra con un tasso alcolemico che farebbe esplodere un etilometro?

Si schiantano contro un albero.

Quelli che stavano dormendo se ne accorgono la mattina dopo, quando vengono svegliati dalle urla dell’inglese che s’è rotto una gamba. Come, dato che era al posto di guida, non è dato sapere. Scendono a cercare aiuto, ma scoprono che sono in mezzo a una prateria, la strada è scomparsa e c’è un’inquietante casa la cui forma suggerisce che si tratta di abuso edilizio. Probabilmente gli sceneggiatori volevano essere davvero sicuri che si capisse che siamo in Italia.

E siamo a neanche venti minuti su quasi due ore di film.

Da qui in poi il film degenera nell’horror splatter con le classiche punte di intelligenza e coraggio dei protagonisti degni di un opossum che si finge morto sulla corsia di sorpasso dell’A4.

«Stanno ammazzando uno dei nostri!»
«Sì ma non possiamo fare nulla»
«Potremmo, tipo, provare a salvarlo?»
«Cosa pensi che siamo? Le tartarughe ninja?»
«Ma quelli sono tre idioti con delle maschere di legno e stanno avendo la meglio solo perché quello lì c’ha una gamba rotta, mentre noi siamo quattro, giovani e incazzati come iene. Potremmo saltare giù, picchiarli tutti e recuperare il nostro amico senza neanche impegnarci troppo.»

Lo lasciano morire.

Cos’è che non funziona, senza fare spoiler?

Sarebbe facile rispondere “tutto”, ma non è così. Per quanto abbia fatto una descrizione molto sarcastica della trama, non è un incipit troppo diverso da quelli di film ben più famosi, come “Quella casa nel bosco”, “Blair Witch Project” e un’infinità di film di zombie. Col gruppo di ragazzi che parte in roulotte si va sempre sul sicuro. Se gli dai un senso di esistere.

La forza di avere un gruppo di personaggi, invece di un solo protagonista, è il potergli dare caratteri diversi in modo che almeno uno di loro stabilisca un legame empatico con lo spettatore. Però lo devi saper fare, o rischi di ottenere il risultato opposto: che il gruppo venga visto come una massa informe di persone a caso con cui non è possibile relazionarsi.

Qui abbiamo cinque personaggi potenzialmente molto diversi tra loro, ognuno con i propri problemi e con una personalità definita. O meglio, dovrebbe essere definita, ma ognuno di loro riceve giusto lo spazio per capire chi è e di alcuni non sappiamo neanche perché sono lì.

Abbiamo una ragazza che ha appena subito un grave shock emotivo, con la madre che le “consiglia caldamente” di abortire. Possiamo stabilire fin da subito un forte legame con lei perché vediamo che sta soffrendo ingiustamente e ci chiediamo come andrà avanti la storia per lei. Purtroppo finisce qui: per tutto il viaggio rimane nel suo angolino senza far niente e dopo l’indicidente ha un ruolo marginale.

Poi c’è l’inglese, che ci delizia con la sua sapienza e ci fa il favore di morire subito, per fortuna.

La ragazza dell’inglese che potrebbe avere un forte sviluppo in seguito alla morte di lui, ha il climax in una chiacchierata notturna con l’altra ragazza in cui un comparto audio opinabile mi ha costretto a mettere i sottotitoli per capire cosa diceva.

L’unico adulto del gruppo passa tutto il tempo a lamentarsi e insultare gli altri invece di cercare di rendersi utile in una qualsivoglia maniera.

Infine c’è il classico “boy scout” un po’ impacciato che non può mai mancare in un gruppo e che viene usato come punching ball morale da più o meno tutti gli altri.

Insomma, il personaggio con cui ho empatizzato di più è la povera roulotte che si è schiantata contro un albero.

Ma il vero problema è un altro.

Spoiler alert!

Da qui in poi parlerò di ciò che riguarda il finale. Se non avete ancora visto il film e siete convinto di volerlo vedere, non proseguite la lettura.
In caso contrario, divertitevi!

Se proseguite la lettura lo fate a vostro rischio e pericolo di spoiler.

L’idea geniale

La grande rivelazione del film arriva praticamente alla fine, quando sono tutti morti tranne la ragazza di inizio film e il “boy scout”, che si scopre ha orchestrato tutto. I cinque sono infatti finiti in una trappola cinematografica di quest’ultimo, che registra le morti sceniche e ci fa dei film – probabilmente dei cinepanettoni splatter.

Quindi il titolo significa proprio questo: è una classica storia horror proprio perché il cattivo ha orchestrato tutto per farla diventare una classica storia horror con tutti i cliché possibili. E al tempo stesso è un’idea originale che ribalta il concetto di horror classico. Da qui le opinioni contrastanti che ho accennato all’inizio del post.

Ma allora dov’è il problema?

Il problema è come viene fatto il tutto.

Riassunto del finale

Come detto prima, il posto non è altro che un set cinematografico un po’ spartano. La ragazza, che è stata inchiodata a una sedia, viene messa davanti a una lunga tavolata piena di gente non particolarmente erudita intenta a mangiare, con a capotavola una boss mafiosa e un paio di ragazzi che cantano. Giusto per ribadire l’italianità del tutto.
Viene poi portata in una stanza in cui si può monitorare tutta l’area, rivelandole che li hanno sempre tenuti sott’occhio, e la lasciano lì, senza sorveglianza.

Ovviamente scappa, scopre dov’è finito il ragazzo, trova un fucile in un tendone lì accanto e lo impallina. Poi scappa, finisce in una spiaggia e si butta in mare.

Sembra un po’ sconclusionato? In effetti sì, principalmente per due motivi.

1 – I personaggi hanno bisogno di spazio

Soprattutto quando i protagonisti sono un gruppo di più di tre persone è necessario che ognuno di loro abbia un briciolo di arco narrativo. Qui, a parte che per la prima ragazza, non c’è molto da dire fin quasi alla fine e le morti arrivano quasi senza un perché, semplicemente perché sì: arrivati a quel punto qualcuno deve morire e gli altri restano a guardare. L’inglese muore mentre tutti gli altri guardano, la sua ragazza e l’adulto vengono rapiti mentre dormivano e sgozzati. Il tutto senza che ci fosse un minimo di lotta per la sopravvivenza o possibilità di risposta.

L’unico sviluppo psicologico della ragazza superstite è il momento rambo in cui capisce di essere stata ingannata, prende un fucile (molto conveniente visto che fino a quel momento non si erano mai viste armi da fuoco) e impallina il ragazzo. E il figlio che ha in grembo? E i problemi con la madre? E il suo lavoro? Okay che magari sono problemi minori in quel momento, ma buttarsi in mare immagino non aiuti molto.

2 – Non puoi inserire degli elementi e poi non usarli

“Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”
Anton Cechov

Questo film ricalca il ben più famoso, e precedentemente citato, Quella casa nel bosco. La differenza è che in quel film sappiamo fin da subito cosa sta succedendo alle spalle dei protagonisti, ma non è questo l’importante. Alla fine del film tutto quello che viene mostrato fino a quel momento viene usato, senza nessuna esclusione, e ogni personaggio trova una sua conclusione.

Qui, invece, il plot twist arriva alla fine per conservare la sorpresa, ma viene trattato in modo troppo superficiale. Viene mostrato che almeno una trentina di persone sono coinvolte nel tutto e che a dirigere le operazioni c’è una donna molto famosa e pericolosa. Che dopo quella scena non compare mai più, insieme a tutto il gruppo di comparse. Viene anche mostrata una specie di baraccopoli in cui si suppone che vivano tutti, ma non c’è nessuno in zona. Molto conveniente per la fuga della ragazza.

Non puoi inserire un elemento così pesante all’interno del film e poi dimenticartene cinque minuti dopo. Che fine fanno loro? Inseguiranno la ragazza? La polizia li scoprirà? Chi ha commissionato i film horror è un maniaco o è all’oscuro di tutto?
Quest’ultima domanda sembra fuori contesto, ma dato che c’è un’intera scena di litigio tra due personaggi sul rispettare le direttive del cliente, non lo è affatto.
In Quella casa nel bosco ogni singolo elemento mostrato, o anche solo citato, nel finale ha un suo perché.

Qui no, e questo è forse il problema più grande.

Nel complesso

Il film è godibile e l’idea di base avrebbe potuto renderlo un film geniale. Purtroppo, invece, è diventato un esempio perfetto di come non si deve scrivere una sceneggiatura, perché basta fare un singolo errore e puoi salutare per sempre un probabile 74% di gradimento.

Ho comunque apprezzato molto il fatto che in Italia si sia provato a dare nuova dignità al genere Horror cercando anche di far risaltare – al di là delle facili battute – il territorio in cui è stato girato. Spero che i produttori imparino dall’esperienza e ci propongano in futuro film più studiati.

E che comprino microfoni migliori. In certe scene ho seriamente dovuto mettere i sottotitoli per capire cosa dicevano.

Ma questo è un film della Marvel! Ah no.

Dopo i titoli di coda è stata inserita una scena molto carina che invita le persone a non schiacciare il “non mi piace” a un film su netflix senza aver visto effettivamente il film. Molto simpatica per come è stata realizzata, l’ho apprezzata molto.

Peccato che la scena post crediti sia stata progettata per essere vista da chi non arriva neanche alla fine del film rendendola un po’ inutile, per quanto divertente.



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